Nessuna convivenza ma un figlio in comune: catalogabili come maltrattamenti i soprusi dell’uomo ai danni della donna

Secondo i giudici, pur in assenza di una convivenza, può comunque esservi una prospettiva di vita in comune e non una mera genitorialità condivisa

Nessuna convivenza ma un figlio in comune: catalogabili come maltrattamenti i soprusi dell’uomo ai danni della donna

Nessuna convivenza, da un lato, e l’essere madre e padre di un figlio, dall’altro: a fronte di questi due dati, è legittimo parlare di rapporto di tipo familiare. Legittimo, quindi, catalogare come maltrattamenti in famiglia i soprusi messi in atto da un uomo nei confronti della compagna. Questa la visione tracciata dai giudici (sentenza numero 4343 del 3 febbraio 2025 della Cassazione), i quali hanno chiarito, in sostanza, che, pur in assenza di una convivenza, può comunque esservi una prospettiva di vita in comune e non una mera genitorialità condivisa.
Scenario della vicenda è la provincia calabrese. A finire nei guai è un uomo, denunciato dalla compagna – con la quale ha anche avuto un figlio – per presunti maltrattamenti.
Il quadro probatorio, centrato soprattutto sulle dichiarazioni della donna, è inequivocabile secondo i giudici d’Appello, i quali ritengono l’uomo colpevole.
Questa decisione viene fortemente contestata in Cassazione dall’avvocato che difende l’uomo. In questa ottica, difatti, secondo il legale, non vi sono i presupposti per parlare di un rapporto stabile tra il proprio cliente e la persona offesa, la quale, aggiunge il legale, non a caso non ha mai parlato di relazione, né di fidanzamento, ma anzi ha escluso l’esistenza di un rapporto stabile, tanto da esserle precluso l’accesso all’abitazione dell’uomo, il quale, a sua volta, non aveva le chiavi dell’abitazione della persona offesa. Senza dimenticare, poi, che i due vivono in paesi differenti, precisa il legale.
Per ampliare la linea difensiva, poi, viene aggiunto che i fatti si collocano tutti in una fase temporale successiva al concepimento del figlio, in una fase, cioè, in cui le parti avevano in comune solo il figlio, ma vivevano vite del tutto autonome ed affettivamente separate, cosi come avvenuto prima del concepimento.
Impossibile, quindi, sempre secondo il legale, dedurre dalla mera frequentazione della casa della persona offesa da parte dell’uomo l’esistenza di un legame e di vincoli di solidarietà cosi forti da delineare la concretezza di un rapporto di tipo familiare. E, poi, non è stato indicato alcun elemento da cui dedurre che la genitorialità fosse stata condivisa, tanto che la stessa persona offesa in querela ha affermato che l’uomo voleva che ella abortisse.
A fronte delle obiezioni difensive, però, i magistrati di Cassazione replicano condividendo l’ottica adottata in Appello: tra l’uomo e la donna vi erano, all’epoca, legami affettivi stabili. Sacrosanto, quindi, catalogare come maltrattamenti in famiglia i soprusi compiuti dall’uomo ai danni della compagna.
Ciò a fronte di diversi elementi relativi al fatto che vi fosse un rapporto familiare tra l’uomo e la donna. Nello specifico, la relazione sentimentale tra i due era iniziata tre anni prima della nascita del figlio, e, nella querela e nel corso dell’esame dibattimentale, la persona offesa ha affermato che quella con l’uomo era stata una relazione affettiva stabile, caratterizzata dall’assidua frequentazione della propria abitazione da parte dell’uomo e impreziosita dalla nascita di un figlio.
Evidente, anche secondo i giudici di Cassazione, l’esistenza di un progetto di vita condiviso, basato sulla reciproca solidarietà ed assistenza.
Tirando le somme, pur in assenza di una convivenza (osteggiata dalla madre dell’uomo), non vi era una mera genitorialità condivisa, bensì una aspettativa di vita in comune, requisito sufficiente per parlare di maltrattamenti in famiglia, a fronte dei soprusi compiuti dall’uomo ai danni della compagna.

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